26.01.2025
10 sciatori, 10 leggende, 10 storie incredibili.
Abbiamo voluto unire in questo racconto finale alcuni pezzi delle storie dei Senatori raccontate finora, ognuna delle quali rappresenta un pezzo di storia anche della Marcialonga.
BINARI PARALLELI
Che Marcialonga abbia inizio.
La curiosità in tutti noi è palpabile. Nessuno può sapere come sarà. Tu te lo chiedi da quando hai preso in mano la ricevuta dell’iscrizione. La stringevi forte, accartocciandola quasi nel palmo. Promemoria del primo passo verso un’avventura straordinaria, ma ancora sconosciuta.
Ti guardi attorno e vedi concentrazione, ansia, voglia di andare. Felicità. Sei pronto. Ancora qualche istante e ti lascerai scivolare sulla neve che tutto avvolge. Sarai, sei, la piccola parte di una storia che sta vedendo la luce. Qui, oggi. 7 febbraio 1971.
Sono pronto. È facile esserlo quando vai ad allenarti. Nessuna pressione, nessuna apprensione, nessuna grande ambizione. Solo tu e una montagna selvatica e tenace, come le genti che la abitano. Prendo lo zaino in mano, controllo di nuovo che ci sia tutto. Un cambio, una maglia più pesante, la borraccia con gli integratori, un po’ di frutta secca. La cioccolata fondente. Mi guardo allo specchio prima di uscire di casa e l’immagine di rimando, brizzolata, mi sorride. Mi guardo e assaporo già mentalmente il momento in cui il mio corpo comincerà a muoversi.
Devi finire la sessione. Pensa a dove ti porterà tutto questo. Pensa ai tuoi due obiettivi. Allenarti per la marcia, traghettare il fisico verso l’estate. Allenarti per la Marcialonga. Fare anche quest’anno classifica, l’ultima domenica di gennaio. Un appuntamento cominciato per divertimento. Cominciare e continuare è stato un tutt’uno. E poi è arrivata la decima, quella che ti ha incastrato davvero. Il titolo di Senatore. Quasi un’investitura. Come si fa poi a rinunciare? A tornare indietro? Non si può. Il legame diventa indissolubile. Tu e Lei. E gli anni che passano.
Anno dopo anno si riparte e tutto si ripete. Diventa familiare, quasi rassicurante. Il colpo di cannone della partenza, l’assalto alla diligenza dei 5.000 che schizzano invasati tentando di superarsi per essere avanti, sempre avanti, fino al campionato mondiale della “bestemmia” dopo la discesa di Mazzin dove vedi bastoncini volare e concorrenti accartocciati farsi tutt’uno con i propri sci, e poi i campanili della Val di Fiemme che passano uno via l’altro come dei miraggi che ti accompagnano all’ultima massacrante salita dove pensi che non ce la fai proprio più, che forse devi mollare, ma poi alla fine arrivi sempre.
Anche se la neve continua a cadere.
10 ore di viaggio e non siamo neppure a metà strada. Aleggia nell’abitacolo la consapevolezza che non arriveremo mai in tempo per prendere i pettorali. Ci faranno partire comunque? …Incrocia le dita. E il viaggio continua.
Tanto facciamo che arriviamo in partenza. Sono le 4 del mattino. Intorno è tutto buio e freddo. Si, siamo qui. Respiro a pieni polmoni l’aria della notte e mi preparo. Ci sarò anch’io, anche quest’anno. Arrivano infine i pettorali, ultimo tassello del mosaico.
5 minuti alla partenza
Sento lo speaker in lontananza. Sono quasi frastornato, vagamente euforico, come dopo un bicchiere di champagne. Rimango in bilico, combattuto tra la voglia di partire all’istante e quella di fermare il tempo qui, in sospensione. Di rimanere in questo preciso attimo, saturo delle sensazioni che sto provando, io come gli altri. Imbevuto di quest’ansia positiva, che ti prende la pancia creando quasi uno spazio vuoto in essa.
1 minuto alla partenza
Metto gli sci ai piedi e ripasso mentalmente il primo tratto di gara, la lucidità è tornata e io voglio essere pronto. Sbatto inconsciamente gli sci sulla neve per non far fare zoccolo alla sciolina, gesto scaramantico per mitigare l’apprensione. Mi metto in posizione e aspetto il colpo di pistola che immancabilmente arriva. Netto. Sospiro di sollievo e via. La tensione ormai è dissolta completamente e l’Aria che respiro si è fatta molto più leggera.
Sono appena uscito dal lancio e vedo già la prima rampa, dietro alla Centrale elettrica, che mi porta, rapido, sui prati di Sorte in un falso piano lungo circa un chilometro. Ecco l’abitato di Moena, la parte più antica del paese, le case che si stagliano nella prima luce del giorno, i camini che fumano, la vita che si sveglia dopo l’inerzia della notte.
E io scivolo, spingo, mi incanto mentre proseguo per Campestrin e poi Campitello e alla fine Canazei. Il giro di boa. Le spalle alla Marmolada e giù attraversando ancora l’Avisio, fra ampi prati innevati e tratti di fitto bosco puntinato di larici e abeti. La parte del percorso che preferisco, quella che mi fa sentire davvero il respiro delle Dolomiti.
Non ti muovere.
È stato un rumore sordo. Quasi impercettibile ad orecchio umano. Ma io l’ho sentito distintamente, pur nel trambusto provocato dagli altri concorrenti che sgomitavano per passare. Lo sento ancora. Dentro. Echeggia in un costante reiterarsi. Ossa che si rompono. Sono riverso nell’acqua ghiacciata, boccheggio di dolore per metà nell’Avisio, e lo sento. Fa il pari con il freddo che mi sta inzuppando le ossa. Due strumenti di un’orchestra perfettamente accordati tra loro ma dissonanti con il resto del mondo, con me. Immensamente fastidiosi. No, non doveva andare così, dopo tante Marcialonghe trovarsi qui, spinto da altri nel greto del fiume. Fracassato.
Non ti muovere.
Valuta i danni, soppesa il da farsi. Chiudi fuori quel rumore. Torna lucido. Nessuno sembra curarsi di te, passano svelti tentando di superarti, di superarsi, in un vortice di adrenalina e velocità. La strada è ancora lunga. Ma non puoi mollare. Tu sei un Senatore! Lo sei da 10 anni, devi arrivare alla fine. Non è nemmeno lontanamente pensabile che tu perda il titolo. Sei e rimarrai Senatore. Alzati, combatti!
Il movimento è pesante, ancora quindici chilometri, ancora la lunghissima salita di Predaia, “le piane di Castello”, la salita che porta all’ospedale, l’arrivo. Sono stanco, stanco, stanco. Il dolore è lanciante e pervade ogni singola fibra del mio corpo, come se non fosse più solo la schiena ma fossi tutto io. Solo dolore che prevarica il resto. Devo fermarmi. Non voglio ma devo fermarmi. Non arriverò. Mi abbandono a questa consapevolezza e poi lo vedo passare. Il mio avversario di sempre. In un attimo torna la lucidità. Un’ondata di adrenalina mi investe.
Mi rimetto in pista. Non è più forza di braccia, non è più forza di gambe, non è più movimento elegante e regolare. È solo ed esclusivamente forza di volontà.
Avanti, ancora avanti. Scollino. Poi c’è solo il traguardo.
Che mi aspetta, vestito con l’abito più bello. Quello delle grandi feste. Pieno del calore che solo la somma di tante voci, di tanti cenni, di tanti colori può sprigionare. Tutti gli anni arrivo alla strettoia dopo Piazza Res, vedo in fondo il ponte in legno, mi lascio andare alla discesa ed è pura emozione. Sempre diversa. Come uno schizzo fatto a mano libera, con una matita dal tratto sottile. Sono li assiepati, una folla che ti attende arrivare, che riconosce il pettorale giallo, che aumenta esponenzialmente i decibel. E tu scivoli con la stanchezza che scompare negli ultimi 20 metri. Senti il tuo nome scandito dallo speaker, sei tu alla fine di 70 km combattuti. Da li in poi è solo esultanza, verso la linea che decreterà che sei arrivato. Anche oggi.
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